La stradina

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Per noi era la stradina. Un vicolo vicino al palazzo dove abitavo con i miei genitori. Era diviso in lati. Quello più importante aveva la recinzione di un albergo dal nome enigmatico: “K”. Ci siamo chiesti per anni cosa significasse, facendo le ipotesi più strane. Quella che più ci piaceva era che la K fosse l’iniziale del nome del proprietario, Karl o Kaiser, una pericolosa spia tedesca che conosceva tremendi segreti internazionali e si nascondeva all’interno. Per questo, forse, la facciata era un insieme di piccoli mattoncini marrone chiaro, le ringhiere dei balconi verniciati di nero con le persiane eternamente abbassate. Era sempre tutto spento, come disabitato. Ambiguo come il suo nome, ricoperto da una quantità tale di piante rampicanti da sembrare abbandonato da anni. Il lato opposto era diviso in tre. C’era il cancello del signor Pesce, alto almeno tre metri, grigio scuro con degli assi di ferro massiccio a formare una grata carceraria. In alto aveva una P enorme ed un muro a destra e uno a sinistra lo rinchiudeva, separandolo dai vicini. Era temutissimo. Non ci sopportava nemmeno quando non c’eravamo. Chiamava i vigili urbani almeno una volta al giorno, non senza averci prima intimato di sparire minacciandoci con una pompa per l’acqua gialla che faceva roteare goffamente. A sinistra abitava Clotilde. Quando giocava con noi, la mamma se ne stava buona e sopportava schiamazzi e pallonate alle finestre. Quando Clotilde non c’era, sapevamo che prima o poi avrebbe aperto la porta e asciugandosi le mani con uno strofinaccio, avrebbe cominciato ad urlare di andare a rompere da un’altra parte; in verità non insisteva tanto. Cosa facesse da doversi asciugare le mani tutti i giorni a tutte le ore per dieci anni di seguito, non lo avremmo mai saputo. Il lato sinistro della stradina lo chiudeva Tonino, il terribile carrozziere. Era velocissimo nel rincorrerci quando aveva deciso che non ne poteva più di noi, nonostante avesse un pancione enorme, talmente sporgente che le magliette che indossava sembravano stese ad asciugare. Tonino ci ha squartato quasi mille palloni che sbattevamo contro le sue macchine. Ringhiando con la ferocia di chi sta per tagliare la gola ad un nemico che altrimenti lo ucciderebbe, prendeva la sfera di cuoio con la mano sinistra e con la destra vi conficcava un cacciavite guardandoci con crudeltà, sperando che qualcuno reagisse. Il giardino faceva della Stradina un vicolo cieco. Era buio per una caterva di alberi e piante cresciute una sull’altra all’interno di una edificio abbandonato e senza tetto. Erano gli anni settanta.

Oggi la stradina è ancora lì. Ci sono gli eredi del signor Pesce e la mamma di Clotilde, mentre l’Hotel K sta diventando una palazzina di lusso. Non ci sono più schiamazzi, ne le partite di calcetto. Siamo andati via quasi tutti. Qualcuno ha realizzato i sogni che ci raccontavamo mentre giocavamo a nascondino, inguattati nel giardino che sta per scomparire a sua volta, lasciando passare auto e pedoni ed aprendo la stradina al mare: il tempo passa ed i ricordi non riescono a fermarlo.

Mi piacciono i libri di carta, le magliette con i disegni, le matite ed il vino, quello buono. Leggo, cammino, scrivo.

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